Non puoi più fare come nel ’64

È il 14 ottobre del 1964 e a Tokyo è una giornata piovigginosa, ciò nonostante l’aria vibra di eccitazione mentre migliaia di spettatori si accalcano allo Stadio Olimpico, pronti ad assistere alla gara più emozionanti delle Olimpiadi: la finale dei 100 metri maschili.

Tra la folla, un gruppo di 22 persone si distingue per la loro concentrazione e determinazione. Non sono atleti, ma osservatori scelti con cura, con un compito cruciale sulle loro spalle.

Nel 1964, la tecnologia moderna che oggi diamo per scontata è solo un sogno lontano. Le telecamere ad alta velocità, capaci di catturare ogni millisecondo di una gara, non esistono ancora (nemmeno nel tecnologico Giappone). Come determinare allora il vincitore di una gara in cui i decimi di secondo sono decisivi ?

La risposta sta in questi 22 osservatori, posizionati allineati con il filo di lana teso di traverso sopra la linea d’arrivo.

Il momento clou arriva alle 15:34. Il silenzio cala sullo stadio mentre i corridori si posizionano ai blocchi di partenza. Il colpo di pistola risuona nell’aria e, in un battito di ciglia, tutto è finito. I primi due atleti tagliano il traguardo quasi simultaneamente, rendendo estremamente difficile determinare il vincitore.

Senza telecamere ad alta velocità, il giudizio di questo 22 uomini vestiti di bianco diventa cruciale.

Dopo una breve ma intensa discussione, viene dichiarato vincitore l’americano Bob Hayes. C’è grande incertezza: è stato decretato che meno di 2 decimi separassero l’americano dal cubano Enrique Figuerola.

Nello stadio si sente un mormorio di fondo: non sapremo mai se la medaglia d’oro sia stata data al vero vincitore.

E oggi?

Alle ultime Olimpiadi di Parigi appena 5 millesimi di secondo hanno separato Noah Lyles, vincitore, da Kishane Thompson, secondo classificato.

Un sessantesimo di battito di ciglia.

Un divario che sarebbe stato impossibile da percepire e catturare senza l’aiuto di nuova ed adeguata tecnologia.

Esattamente come oggi fare coaching a certi livelli è impensabile senza l’aiuto di strumenti adeguati.

Ancora oggi viene fatto coaching nelle aziende con il metodo GROW sviluppato da Whitmore negli anni ’80.

Per anni ti hanno fatto credere che per ottenere più risultati e performance migliori tu debba avere più motivazione, autostima, “il controllo della mente”, raggiungere uno stato di flusso, conoscere le strategie della PNL e lavorare sulle convinzioni limitanti o praticare la “mindfullness“.

Il punto è che tutti questi approcci NON tengono conto delle più recenti scoperte in campo neuroscientifico e per questo i risultati che puoi ottenere con essi è marginale: quasi sempre il cambiamento è temporaneo, oppure la persona si accorge che risolvere quel singolo problema in realtà non risolve i suoi problemi, in senso più ampio.

Spesso le persone si convincono di essere cambiate semplicemente perché sanno di avere a disposizione una tecnica (come se possedere una racchetta di tennis, faccia di te un giocatore in grado di battere il servizio dall’alto).

La chiave della performance sta invece nell’integrazione anche della componente somatica dell’esperienza, che si ottiene con l’allineamento sia della neocorteccia, che della parte limbica del cervello.

Un altro punto fondamentale è che quasi tutte le tecnologie e modelli di ‘miglioramento personale’ e sviluppo delle risorse umane disponibili sul mercato partono sempre dal problema. Cioè piazzano il punto di partenza all’esterno e tutta la loro attenzione va su ciò che NON funziona.

L’approccio che uso io, e che ho imparato da Simone Pacchiele e da Joseph Riggio, parte invece da una configurazione dove il problema NON c’è e prende in considerazione come sei, quando sei al meglio, perché in questa stato ciò che vuoi e le scelte che fai non sono guidate dal tuo cervello limbico attivato dalla percezione di un problema.

Quando sei in questo stato, che chiamiamo stato generativo, hai già tutto e non c’è niente di cui hai bisogno e – paradossalmente – è l’unico momento in cui sai veramente cosa vuoi, perché non lo scegli in reazione a qualcosa o sotto l’influenza di qualcun altro.

In questo stato prendi decisioni non dalla testa, ma perché le senti nel corpo.

Da questa posizione il cambiamento avviene senza clamore, niente salti quantici, in modo naturale. Tanto che quando dopo un po’ di tempo ricontatto dei coachee e chiedo come va e cosa è cambiato, la risposta più comune è “niente di particolare, tutto ok” e nel proseguo della chiacchierata sento frasi del tipo:

  • ho ripreso dopo 20 anni ad andare a ballare il tango
  • ho ricevuto un’aumento
  • ho avviato delle collaborazioni ed abbiamo un sacco di progetti che stiamo sviluppando
  • ho portato i miei genitori in vacanza
  • ho dato un ultimatum al mio partner

Il motivo per cui le persone dopo le sessioni di coaching non si ricordano più dei problemi che avevano prima è duplice:

  1. perché, come detto prima, in questo modello di coaching NON andiamo sul problema, perciò i coachee non associano la risoluzione del problema al coaching
  2. perché hanno avuto una vera evoluzione, ora sono ad un nuovo livello, in cui alcuni problemi non esistono proprio più

Se anche tu vuoi trasformare la tua vita in modo duraturo e profondo, prendi appuntamento per un colloquio conoscitivo in cui puoi farmi tutte le tue domande.

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